
The Collage Post
Prima di affrontare il discorso dell’uomo sulla natura occorre fare delle precisazioni.
Il termine tecnica indica uno schema operativo d’un metodo inventato o trovato per la realizzazione di una qualsiasi attività, come pure un sistema specifico applicabile a una determinata azione e tale da conferire a tale azione una precisione e una spettacolarizzazione che prima dell’invenzione tecnica essa non aveva.
Senza l’elemento tecnico l’uomo non sarebbe in grado di estendere il suo dominio sul mondo e sulle cose con quella straordinaria capacità creativa che lo differenzia da ogni altro essere vivente.
Bisogna distinguere l’elemento tecnico da quello tecnologico.
Quest’ultimo è tutto ciò che ha un preciso riferimento con le strutture meccaniche e industrializzate della nostra civiltà, che entra in gioco nella manipolazione degli oggetti tecnici dei prodotti industriali, mentre l’elemento tecnico entra a far parte di molti settori che invece nulla hanno a che fare con la tecnologia, come le tecniche linguistiche, operative, psicologiche…
L’elemento tecnico esiste e interviene sin dalla prima fase magica o mitica dell’umanità.
Se la presenza dell’oggetto tecnico costituisce una delle particolarità più curiose e dense di significato della nostra età, non sarà possibile peraltro identificare tale presenza con quella di elementi tecnici nelle fasi pretecnologiche dell’umanità.
Nell’errato uso delle tecniche nella perdita della loro internazionalità o nell’esaltazione della loro mitopoiesi può annidarsi il germe di gravi distorsioni e l’equilibrio etico sociale razionale dell’uomo.
Un esempio di come un fattore mitizzante possa facilmente infiltrarsi e intervenire nel caso d’una sopravvalutazione della tecnica in quanto tale nel campo artistico sono i programmi che disegnano al posto dell’individuo. In questo caso l’elemento tecnico sarà inteso proprio nella sua accezione di abilità manuale artificiale di skilfulness.
Con l’avvento della macchina a vapore, dell’elettricità, dell’automazione hanno portato alle stratificazioni sociali, alla divisione del lavoro, allo specializzarsi delle tecniche.
Ed è appunto da codesto stadio nel quale oggi viviamo che dobbiamo separarci, eventualmente o temporaneamente, e saltuariamente liberare, se vogliamo ottenere di nuovo una capacità percettiva ed espressiva che sia in grado di condurci a una situazione di maggior libertà di pensiero e di maggior comunicabilità intersoggettiva.
Per ottenere ciò è necessario saper usare in maniera giusta e saggia le tecniche di cui si dispone e di cui assai spesso si fa un uso errato, perché non si riesce più a valutarne la vera efficacia e a discernere i veri limiti.
Un modo naturale di essere e di agire in un sistema personale, un sistema che sia in certo modo consustanziale all’individualità umana al suo ego. Qualcosa di simile si verifica quando la tecnica appare avulsa e distaccata dal fattore cui deve imprimere efficacia, sia esso artistico, meccanico, scientifico.
È un fatto caratteristico della nostra età quello di assistere allo scindersi di alcune tecniche dal rapporto uomo-mondo così da vivere per conto proprio non integrate in quella che dovrebbe essere la propria funzione specifica.
Ogni scoperta scientifica, ogni invenzione tecnica e artistica ha di solito, all’inizio, una funzione catartica: libera l’uomo dall’asservimento a una situazione di soggezione, di sottomissione, che può essere fisica, psichica, sociale.
Quello stesso principio che aveva informato la scoperta o l’invenzione di quella determinata tecnica può finire col ritorcersi sull’uomo stesso: accade spesso che la liberazione da una schiavitù determini poi l’insinuarsi di situazioni altrettanto coercitive, come l’emancipazione del lavoro dei campi si è tramutata in asservimento del proletariato all’ingranaggio industriale, come il superamento dell’artigianato si è tradotto in perdita dell’iniziativa individuale e in standardizzazione dei prodotti.
Finché l’uomo si servì dei diversi strumenti come di veri e propri prolungamenti dei suoi stessi arti fisici e psichici credo che questo costituisca qualcosa di lecito, anzi di utile e di efficace: l’unico autentico modo per trasformare una natura ancora caotica in una natura cosmica.
Ma il pericolo interviene quando gli strumenti tecnici vengono a scindersi dall’ego umano; ossia quando la tecnica diventa a sé stante o s’impadronisce dell’uomo anziché lasciarsi impadronire da esso.
Sappiamo che nell’antichità impadronirsi di determinate tecniche occulte costituiva sempre qualcosa di estremamente difficile, aleatorio, pericoloso, riservato a individui particolarmente dotati o per la loro nascita o per la loro appartenenza a una setta sacerdotale, ecc; l’uomo padrone d’una tecnica occulta veniva ad acquistare delle virtù che l’uomo comune non aveva; ma poteva anche andare incontro alla morte o alla follia.
Un esempio spiccio di questa facoltà mistificatrice della tecnica odierna si può osservare dai rapporti tra individui e macchine, con le quali spesso s’instaura un rapporto di affettività morbosa che appare indubbiamente tinto di spunti libidici.
L’antropomorfizzazione dell’automobile da parte del proprietario si ha con la gelosia, l’apprensione…
L’uomo riversa sulla macchina il suo ethos e il suo pathos e diventa in tal modo succube dell’elemento mitico di cui ha investito il meccanismo: la sua partecipazione verso di esso risulta così veramente di tipo empatico.
Si può dire che la presenza di forme artistiche, in cui una componente mitica sia da considerare del tutto positiva proprio perché tale, rientri nei pieni diritti dell’arte di oggi come di sempre.
Spesso associamo la parola mito a una componente sacra, religiosa o comunque riferita all’antichità.
È opportuno liberare il mito da questo ambiguo alone semantico e attribuirgli un valore molto più preciso e svincolato da ogni temporalità, almeno da ogni temporalità diacronica.
Occorre ribadire la necessaria concezione simbolica del mito e del rito e dicendo simbolica intendo che tali forme espressive, usate dall’uomo sin da età remotissime e ancora oggi, traggono la loro origine da una realizzazione analogica e traslata di eventi, di immagini, di situazioni di cui sono talvolta una registrazione inconscia e talaltra la trascrizione metaforica, ma sempre immersa entro un alone di indeterminatezza razionale, e per l’appunto ciò permette di differenziarle dalle forme perfettamente razionalizzate e concettualizzate, quali sono quelle trasmissibili attraverso le normali espressioni linguistiche.
Garroni nei suoi scritti descrive l’instaurarsi di nuovi miti e la rapidità del loro consumo.
I miti e i rituali nella loro comune impostazione simbolica affermano che il comportamento dell’uomo primitivo rende evidente che queste categorie linguistiche non hanno mai raggiunto la consapevolezza e che la loro origine deve essere ricercata non in processi razionali della mente, ma in procedimenti del tutto inconsci.
La parola “linguistiche” è per far notare che il mito e il rito sono elementi linguistici.
Si ritiene che si possa ammettere che tanto nel simbolo artistico quanto nel simbolo mitico e rituale la presenza d’un elemento discorsivo è persino concettualizzabile e pertanto entro certi limiti traducibile.
Si può ammettere una morte del mito così come ammettiamo una morte della metafora. Entrambe queste morti sono dovute a una usura, a una progressiva obsolescenza dell’elemento semantico che le informa, per cui accade che il quoziente informativo-semantico presente nel simbolo sia destinato a decadere, a degradarsi in seguito a una naturale usura o in seguito a particolari trasformazioni del vocabolario storico, così da lasciare intatte le strutture sintattiche dell’elemento stesso, ma facendone del tutto opacizzare le strutture semantiche.
E basterebbe – sempre a questo proposito d’un rapporto tra lingua e simbolo figurale, lingua e mito, il cui rapporto è meramente convenzionale e una volta perduta la connessione creata dalla struttura linguistica viene a perdere ogni ragion d’essere – ricordare quanto afferma Jakobson: “Persino una categoria come quella grammaticale… ricopre un importante ruolo nelle attitudini mitologiche di una comunità”.
Il particolare simbolismo dei generi costituì una delle maggiori cause di confusione nella traduzione del greco.
Nella società odierna sussiste una moltiplicazione di oggetti magico-rituali, ad esempio ciondoli da parabrezza.
L’impiegato postale che compie piccoli gesti ritmici con la mano rappresenta dei rituali preparatori, ossia impulsi motori automatizzati che sembrano essere emessi per un fine propiziatorio, ma che assolvono un loro personale e recondito rito.
Una delle peculiarità delle tecniche zen per il raggiungimento d’un dato fine consiste nel compiere il gesto in modo automatico e al tempo stesso in modo cosciente. L’utomatismo cosciente il cui verificarsi non è insegnabile ma soltanto percepibile fa parte dunque di un elemento cinestesico del più intimo meccanismo psicofisico dell’individuo.
Il maestro zen non può dare indicazioni sull’esecuzione d’un determinato gesto, d’un determinato atto, ma soltanto constatarne l’apprendimento e mettere in guardia il discepolo sulla presenza in lui di alcuni errori, di alcune imperfezioni. Ma una volta raggiunta l’immediatezza dell’atto, il meccanismo non sfugge più al discepolo.
Lo jongleur è la destrezza innata nell’individuo che gli permette quasi magicamente di compiere un atto creativo sia di carattere artigianale che di manipolazione di strumenti meccanizzati.
Le inaudite abilità manuali di cui alcuni individui sono dotati in maniera del tutto eccezionale hanno un elemento rituale.
Il processo di automatizzazione che negli anni ha profondamente mutato il rapporto operaio-macchina viene parzialmente a intaccare alcune delle accuse rivolte da Marx alla macchina e all’industria.
L’automatismo dei gesti dell’operaio, a suo tempo denunciato nella famosa sequenza di Chaplin, divenuta quasi uno slogan d’ogni accusa rivolta contro lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, è forse in via di risoluzione per l’avvento d’una automatizzazione e un instaurarsi dei processi di feedback nelle macchine.
L’analisi del comportamento gestuale dell’uomo è del massimo interesse e se ne sono avveduti numerosi studiosi: basterebbe qui ricordare alcune illuminanti osservazioni di Edward Sapir che riconducono il gesto alla tradizione e che riallacciano il costruirsi del linguaggio gestuale e quello del linguaggio parlato.
Occorre considerare l’aspetto che il gesto assume quando viene a legarsi con un qualsiasi lavoro: lavoro manuale, artigianale, ludico, artistico, tecnologico.
Il rapporto tra gesto e arte è decisivo; non a caso il gesto intervenne in molte arti legate a riti e miti dell’antichità, e tutt’ora interviene nella danza, nella pantomima e nella pittura e scultura e in alcuni aspetti dell’esecuzione musicale.
La Leiblichkeit del gesto teatrale non può essere sottovalutata e l’hanno ben compreso Rovatti e Veda quando hanno rivelato che “possiamo dire che non posso recitare se non coinvolgo in qualche modo il mio corpo e se non lo oriento”.
Il regista infatti può ottenere che un determinato e parcellare gesto significante sia eseguito in maniera corretta entro una determinata sequenza. Trattandosi di brevissimi squarci di azione, la cui continuità deve essere nota al regista ma all’attore, si comprende come, indirizzando di volta in volta in un preciso senso l’elemento motorio, il regista possa farlo coincidere con quella che sarebbe l’autentica azione richiesta da parte del personaggio.
Occorre dunque che la gestualità sia sempre consapevolmente diretta proprio perché in essa si cela un alto quoziente rituale e comunicativo.
Ai nostri giorni sussiste una contrapposizione tra chi si schiera in favore d’un mantenimento degli schemi tradizionali e chi vuole sopprimere questi schemi.
Tale contrasto sembra trovare soluzione nella nostra società, che cerca di dare una continuità culturale tra passato e futuro. Il restauro degli edifici viene considerato come un’opera di mummificazione.
I centri monumentali delle antiche città sono divenuti inadatti alla vita d’oggi e potranno sussistere solo antieconomicamente o per il fatto che il turismo viene attirato dal loro valore artistico o dalla loro curiosità folkloristica, restituendogli un certo quoziente di valore economico che altrimenti più non avrebbero.
Dobbiamo essere coscienti che siamo noi con le nostre mani a essere gli imbalsamatori.
Se, nel caso dell’opera d’arte, questi dati sono pacifici, dovremo indagare il perché sia avvenuto questo crollo dei valori tradizionali in un territorio e in un’area assai più vasta.
Ricœur dice: “la tradizione, nella misura in cui discende essa stessa il pendio del simbolo verso la mitologia dogmatica, si viene a situare sul tragitto di questo tempo esaurito”.
Col passaggio dal simbolo al mito e al dogma mitologico si giunge a un progressivo passaggio da un tempo operante a un tempo esaurito e ciò comporta che quella temporalità sincronica vivente e attiva a livello simbolico cada man mano disgregandosi e disperdendosi attraverso l’instaurarsi del racconto mitico e finalmente d’una mitologia razionalizzata.
Il tendere verso il futuro della tradizione è indubbiamente un fenomeno che ha influenzato profondamente i rapporti tra gioventù e vecchiaia; i quali peraltro sono certamente stati sconvolti anche da ragioni più che altro di carattere fisiologico e biologico.
Un esempio: l’aumento dell’età media della popolazione ha portato una svalutazione della vecchiaia. La spiegazione del fenomeno si ha a causa del raggiungimento della tarda età, che era una condizione privilegiata riservata a pochi individui eccezionali. Pertanto era comprensibile che i giovani guardassero gli anziani con una certa ammirazione, perchè erano importatori di nozioni tramandate a voce.
Oggi la situazione è profondamente mutata. Già il fatto che una maggioranza della popolazione possa raggiungere la maturità e addirittura la vecchiaia toglie a questo fatto ogni carattere d’eccezione e trasforma la popolazione senile in un elemento inutile.
È accertato come gli usi e le abitudini linguistiche siano capaci di influenzare le nostre percezioni e i nostri pensieri, ossia il nostro modo di essere.
È il linguaggio a formare il pensiero. Sappiamo che sussiste uno stretto rapporto tra mito e parola.
Il termine mito ha ormai connotazioni ben più vaste e complesse di quanto non sia la sua mera denotazione etimologica. Dovremmo considerare tale vocabolo con tutto l’alone semantico che esso comporta.
A voler ben considerare molte situazioni in cui ci veniamo a trovare e che costituiscono la base del nostro Dasein derivano proprio da una particolare maniera di impiegare la parola e di servircene.
La dicotomia di forma e sostanza viene accettata e combattuta senza tener conto del fatto che essa derivi prevalentemente da una ragione linguistica.
Per questo si può accettare l’ipotesi che a codesta concezione dualistica dell’universo, del mondo esterno, delle nostre azioni sia da ascrivere la stessa ragione del manifestarsi entro il pensiero occidentale di numerose teorie fisiche, non concepibili senza far ricorso a una così fatta e provvidenziale scissione tra una sostanza amorfa e indifferenziata e una forma che giunge a dominarla, arginarla e precisarla.
Tutte le analisi di quei fenomeni che esulano, o meglio che trascendono la storia, e del loro ordinarsi entro una atemporalità, o piuttosto una temporalità non oggettivabile e non oggettiva, sono state rese artatamente oggettivabili e sincronizzate in seguito al loro essere sottoposte a una trascrizione da parte delle lingue del SAE.
Sono state dunque la nostra lingua e la nostra cultura (così come si sono venute organizzando, grosso modo, dall’antichità Greco-romana a oggi) che sono riuscite e si sono adoperate a storicizzare quei miti e quelle epopee a contenuto spesso del tutto simbolico e irrazionale, che in realtà si svolgevano fuori da ogni tempo storico e che (soltanto finché erano immessi e immersi in un tempo mitico) possedevano un’autentica carica vitale.
Programmare le vacanze, assicurare la propria vita, accedere a mutui sono modi in cui l’individuo ipoteca il proprio futuro tramite la programmazione del proprio futuro.
Tali responsabilità verso il proprio futuro crescono, vengono anche a perdere di valore e di importanza, nulla è veramente nuovo del futuro prefabbricato, salvo le malattie, gli incidenti, le morti che hanno e continuano ad avere una funzione liberatoria e catartica.
Tutto questo porta al mito del tempo oggettivo, anzi, meglio, del tempo oggettualizzato.
L’effetto del movimento (veloce rispetto alla norma stabilita in base ai nostri ritmi fisiologici) deve essere considerato nel suo aspetto attivo e passivo a seconda che il movimento sia vissuto attivamente o subito passivamente.
Le trasformazioni subite in seguito alla velocità dal mondo esterno, entro cui siamo immessi. sono esse pure di due tipi: da un lato abbiamo nuove possibilità di visualizzazione indotte dalla velocità, dall’altro gli effetti che il movimento esercita sulla struttura degli oggetti artificialmente prodotti, che sono modificati per far fronte al movimento stesso.
Occorre tener conto dell’avvento di nuove e assolutamente inedite forme comunicative ed estrinseche sorte in seguito alla dinamica meccanica, come il film, la TV.
Queste ultime sono sorte in seguito a meccanismi dinamici e a un nuovo atteggiamento dell’uomo nel suo modo di visualizzare il mondo.
L’avvento del cinema non costituisce soltanto la realizzazione di un’altra arte, ma costituisce tutto un nuovo modo di essere e di vedere, un diverso atteggiamento percettivo ed espressivo basato prevalentemente sull’enfasi data dall’elemento motorio cinetico.
Lo spettatore cinematografico si avvezza così a un diverso modo di registrazione delle sequenze cinetiche non soltanto per il fatto del loro essere figure in movimento, ma soprattutto per il fatto del loro svolgersi in un tempo che non è assolutamente più quello della vita reale, che può essere più rallentata, accelerata o del tutto immaginaria.
Una diversa impostazione percettiva si è andata sviluppando rispetto al mondo esterno, dovuta alla massiccia dinamizzazione dei mezzi di trasporto e quindi della nostra stessa esistenza. Questa dinamizzazione ha portato con sé un diverso atteggiamento rispetto ai concetti di nazione, di patria e di società.
L’influsso del tempo ha creato l’insorgenza di nuove dimensioni e ha esaltato la tendenza a creare opere d’arte dinamiche, non solo nel caso delle arti del tempo ma anche dinamizzando quelle spaziali, al pari della sollecitazione a descrivere ed esprimere stati d’animo dovuti a rappresentazioni cinetiche.
Possiamo dire che si è creato una sorta spazialità immaginaria. Liberarsi dal continuum spazio-temporale, eliminare il tempo e modificarne le dimensioni; uscire dalla norma sensoriale attraverso inedite e inesplorate virtù telepatiche, telecinetiche; evadere dalle leggi gravitazionali, constatare i pericoli della bomba atomica e superarli; trasferirsi in epoche beate o dannate in cui l’uomo sia padrone delle forze fisiche e psichiche o sia divenuto succube di esse, sono tutte aspirazioni e angosciosi interrogativi ai quali la fantascienza cerca in mille maniere di rispondere.
Ma, come osserva molto giustamente Banham, la fantascienza è un genere di lettura non racchiuso in grandi monumenti. La smerciabilità della fantascienza è altrettanto alta di quella della musica pop.
Soprattutto con la realizzazione dei primi autentici voli spaziali dalla fantascienza si è passati alla realtà e possiamo perciò considerare questi racconti a base di astronavi e cosmonauti come uno dei tanti anonimi fattori d’entusiasmo giovanili già ampiamente indagati e analizzati.
L’iperspazio e l’inversione del tempo sono due fenomeni che si hanno tramite l’invenzione d’una macchina. Nel primo caso la macchina doveva superare la velocità della luce, mentre nel secondo caso è un meccanismo capace di percorrere il tempo a ritroso. La macchina del tempo da alcuni anni a questa parte è un elemento ricorrente in tutta la fantascienza.
Il numero di romanzi basati sulla macchina del tempo è grandissimo e tra questi rientrano anche quelli dove l’uso della macchina permette la scoperta e lo spostarsi entro universi paralleli.
L’eroe del racconto che servendosi d’una macchina speciale o per il fortuito verificarsi d’una lacuna nel continuum venga proiettato nell’universo parallelo potrà incontrare le più strane avventure.
Il meccanismo di questi romanzi non è diverso da quello delle consuete narrazioni avventurose: anche qui l’elemento che a noi interessa, quello che costituisce l’elemento mitico e rivelatore, è la liberazione dalla costrizione di leggi implacabili che ci sono imposte dall’esterno.
Il tema dei mutanti è legato a quello della bomba atomica e alla sua esplosione. Dopo una guerra nucleare le radiazioni annientano buona parte dell’umanità; si salveranno pochi gruppi in zone remote. I superstiti hanno progressive mutazioni genetiche.
La letteratura attorno ai mutanti è vasta.
In questo articolo ho solo dato alcuni spunti su cui riflettere sui nuovi riti e i miti della nostra società.